Uno degli obiettivi verso cui deve tendere un attore quando lavora alla costruzione di un personaggio, è l’intreccio ben dosato tra finzione e realtà. Il personaggio che deve “vestire” l’attore spesso è già stato scritto, non solo non da lui, ma anche molto tempo prima che lui nascesse, o molto lontano dalla sua cultura di riferimento. Pensiamo per esempio ad un attore che debba interpretare Othello di Shakespeare o Caligola di Albert Camus.
Come può il povero attore far si che il suo personaggio “viva” sulla scena se egli non ha mai vissuto ai tempi di Shakespeare o di Camus e non ne sa nulla di intrighi di corte? Ebbene, quando un regista o un critico teatrale parlano di “veridicità” o “spontaneità” del personaggio, si riferiscono a quegli aspetti dell’essere umano che sono sempre “veri” e , più o meno, sempre uguali in tutti i tempi e i luoghi: le emozioni. Quello che fa vivere autenticamente il personaggio del nostro attore, è il fatto che provi sentimenti: rabbia, dolore, gioia, tristezza o altro.
Il lavoro dell’attore è quindi quello di richiamare alla memoria non tanto situazioni simili come contenuti o caratteristiche contestuali a quelle vissute dal personaggio nell’opera teatrale, ma situazioni che possano avere evocato emozioni e comportamenti simili. Se per esempio si tratta di Othello, l’attore richiamerà alla memoria quando si è sentito tradito da qualcuno e cosa ha sentito e come si e comportato in quella circostanza.
Lo scopo o l’obiettivo da raggiungere è quindi quello di “colorare” o per meglio dire adattare i propri vissuti e le proprie emozioni a quelle del personaggio, che ha un suo percorso ben preciso dall’inizio alla fine dello spettacolo.
Ci sono due aspetti in particolare che , secondo me, sono simili a quello che fa il paziente in psicoterapia, in particolare in psicoterapia della Gestalt: il primo ha a che fare con il modo in cui il paziente entra in contatto ed esplora i propri vissuti. Attraverso alcune tecniche di rappresentazione come la sedia vuota o la drammatizzazione, ma anche semplicemente raccontando, il paziente da voce e movimento alle parti di se. Questo accade sia quando si riferisce a persone realmente in vita(i genitori, il partner, gli amici) sia quando lavora con parti di se stesso come per esempio la parte più efficiente di sé e quella più pigra.
Utilizzando la tecnica della sedia vuota ad esempio, il paziente vive e indossa i panni dei due poli del conflitto, per provarne sensazioni e sentimenti. Questo lavoro è simile a quello che fa un attore quando “prova” il suo personaggio.
Così come l’attore costruisce il suo personaggio in rapporto agli altri personaggi e alla trama dello spettacolo, il paziente mette in relazione se stesso con il contesto che lo circonda, o con altri se stessi, per consapevolizzare il suo modo di comportarsi e di sentire. Quello che in particolare accomuna la psicoterapia della Gestalt e il lavoro dell’attore, è che il paziente ri-crea o crea, cioè rappresenta, situazioni già vissute o che immagina di poter vivere, per studiare i ruoli e le parti di quella situazione, proprio come fosse una scena teatrale.
L’altro aspetto che hanno in comune attore e paziente è il richiamare emozioni che hanno vissuto e poterne fare qualcosa di diverso: il paziente per cambiare il proprio modo di comportarsi in situazioni simili future, l’attore per poterla prestare al suo personaggio.
In entrambi i casi avviene quindi una separazione tra l’emozione e il comportamento che in genere segue quell’emozione. L’espressione per esempio della rabbia può essere quella di un urlo, o di una battuta sagace o di un silenzio accompagnato da uno sguardo duro. Sia il paziente che lavora da un po’ di tempo su stesso che l’attore esperto sanno scegliere di volta in volta il modo di gestire (innanzi tutto decidendo se esprimendo o meno) la propria rabbia. Una differenza fondamentale è chiaramente quella che questa scelta sarà dettata per l’attore a seconda del testo e del personaggio che deve rappresentare, mentre per il paziente a seconda della situazione di vita sulla quale sta lavorando (il modo di esprimere la rabbia con il/la proprio/a compagno/a sarà chiaramente diverso dal modo di esprimere la rabbia a lavoro).
Paolo Quattrini sostiene che la psicoterapia porta ad una perdita di spontaneità. (Quattrini, 2003) In effetti il paradosso che vive l’attore quando vive e rappresenta le vite degli altri, è in un certo senso vissuto anche dal paziente che impara a cambiare modo di comportarsi. La mancanza di spontaneità è data quindi da una maggiore consapevolezza e da una maggiore attenzione ai propri automatismi o comportamenti automatici. L’essere spontaneo, a volte, può essere disfunzionale ad alcune situazioni di vita. E’ infatti proprio a causa dell’incapacità di gestire situazioni diversamente da come le si sa affrontare, che il paziente decide di iniziare un percorso terapeutico.
Anche perché se è vero che l’attore va in scena con un personaggio “costruito”, e quindi poco spontaneo, è anche vero che quel personaggio è il risultato di una serie di prove attraverso cui l’attore trova i punti di contatto fra sé e il personaggio stesso.
Paolo Quattrini scrive: “Sarebbe interessante prendere in considerazione il teatro come luogo per imparare a comportarsi, proprio per farci le prove:sarebbe estremamente utile che il teatro fosse un pochino più diffuso come luogo di sperimentazione.” (ibidem, p.20)
Il teatro è molto simile ad un percorso psicoterapeutico, nel momento in cui immaginiamo che la sperimentazione di nuovi comportamenti, possa esserci d’aiuto nelle situazioni della vita: il setting terapeutico diventa così palcoscenico in cui si prova, si mettono a punto nuovi modi d’esprimere e di essere nel tempo: “Un comportamento non si impara così di getto:va provato e riprovato, cambiando voce, posizione, parole fino a renderlo soddisfacente al proprio gusto nel suo effetto espressivo e relazionale. A quel punto, se viene acquisito internamente, il comportamento è ritualizzato. Quando è ritualizzato,(….) diventa “spontaneo”. (Ibidem, p.20)
E così la perdita di spontaneità che si ha nel momento in cui cerchiamo o proviamo altri comportamenti, si ri-acquista via via che questi comportamenti diventano familiari per il paziente che li utilizza nella vita quotidiana.
In questo modo possiamo immaginare che il paziente in psicoterapia della Gestalt, va alla ricerca di un nuovo modo di comportarsi e di ascoltarsi, proprio come l’attore ricerca il personaggio dentro di sé!
Mi occupo di disturbi di ansia (fobie, attacchi di panico, ansia generalizzata), di sessualità e di omosessualità, di disturbi alimentari, di depressione, di difficoltà legate alla sfera affettiva (familiare e/o di coppia).
All’interno del mio modello di lavoro utilizzo tecniche di respirazione, rilassamento, sessuologiche e EMDR.